venerdì 23 marzo 2018

fiore frutto foglia fango - Sara Baume

Tornati a casa di mio padre, ti riposi vicino ai miei piedi sul tappeto del soggiorno e io fumo arruffandoti le radici rosse del pelo. Adesso sei tornato tu. Quel tu che non si siede, non resta fermo, non si blocca e non sta al piede a comando, che non viene quando lo chiamo, che non sa camminare come si deve, proprio per niente. Eppure devo ammirare il modo in cui resti te stesso. Non voglio trasformarti in uno di quei giocattoli a batteria che abbaiano e fanno la capriola quando premi l'interruttore. Ho sbagliato a dirti che sei stato cattivo. Ho sbagliato a cercare di importi un po' della mia umanità, visto che il genere umano non mi ha mai portato nulla di buono.



Io sono una di quelle persone che si ferma a salutare ogni cane che vede per strada. Che si ferma a guardare le somiglianze tra l’animale e il suo padroncino e a immaginare quale rapporto ci sia tra loro, e che si commuove di fronte a ogni gesto di tenerezza che si scambiano.
Non ho mai avuto un cane mio. Più volte ci ho pensato, ma per un motivo o per l’altro non è mai il momento giusto. E poi ora ho una gatta bellissima, a cui voglio molto bene.

Credo siano stati tutti questi motivi a spingermi verso fiore frutto foglia fango, il romanzo d’esordio della scrittrice irlandese Sara Baume, da poco uscito per NN editore con la traduzione di Ada Arduini. Mi piaceva tantissimo il titolo, mi piaceva tantissimo la copertina, ma soprattutto la sua trama: un cane senza un occhio che viene adottato da un uomo senza niente se non se stesso, le sue abitudini e i suoi ricordi.

Sono una coppia un po’ strana, Unocchio e Ray. L’uomo lo ha adottato d’impulso, dopo aver visto un annuncio sulla vetrina di uno dei negozietti del piccolo paese irlandese in cui abita. Quando lo ha visto la prima volta, quando ha visto il suo aspetto malandato e la sua paura, Ray ha capito che era il suo compagno giusto. D’altronde anche Ray è un solitario: lo è sempre stato, fin da bambino, e lo è diventato ancora di più quando suo padre, che si è preso cura di lui per tutta la vita, è morto.
Unocchio e Ray riescono a crearsi quasi subito una routine, fatta di passeggiate e corse sulla spiaggia, di annusate tra i cespugli e di coccole in poltrona.

Di sera guardiamo la televisione. A te piacciono i documentari sulla natura, soprattutto se ci sono versi d'uccelli acutissimi. A me piacciono i reality show. Mi piace il fatto che, senza copione, la gente non sa cosa dire o dice le cose sbagliate. Mi piace che, senza cipolle, la gente piange comunque; anzi, piange meglio.Io non ho fatto la vita dei personaggi della televisione. Non ho combattuto in guerra, non mi sono innamorato. Non ho mai tirato un pugno a un uomo o preso per mano una donna. Non ho vissuto al massimo, non ho avuto una vita piena, ma voglio comunque credere che sia stata intensa, che sia stato capace di mettere in discussione e riflettere sulla mia esistenza nulla e vuota,e a volte anche di capirla.

Nessuno però può entrare nel loro mondo. Unocchio non lo permette. Finché un giorno, proprio durante una delle loro passeggiate, il cane azzanna un altro cane e i due sono costretti a scappare. Inizia così un lungo viaggio in auto apparentemente senza meta, in cui i due a poco a poco impareranno a conoscersi sempre di più, a vicenda, ma soprattutto se stessi.

Il potenziale affinché fiore frutto foglia fango mi piacesse tantissimo c’era tutto. C’è la tenerezza del rapporto tra un cane e il suo padrone; c’è la storia di Ray, quest’uomo solitario che non è mai riuscito a trovare il suo posto nel mondo, ma che al tempo stesso vive bene nelle sue piccole abitudini e routine, lontano da tutti; c’è il viaggio alla ricerca di se stessi che non porta poi così lontano da dove si è partiti.

Tu non mi appartieni, Unocchio. Tu non mi appartieni e ho sbagliato a trattarti come se fossi mio. Tu appartieni alle colline ingannatrici, ai campi e ai fossi irrefrenabili, alle buche della foresta, alla linea dell’orizzonte, ai tassi.
Le stagioni non mi appartengono, il mare non mi appartiene, il cielo non mi appartiene.  È mia soltanto la casa di mio padre, e anche se cambiassi tornerei a essere quello di prima.

Eppure, qualcosa tra me e questo romanzo non ha funzionato del tutto. Ho trovato delle parti bellissime e tenerissime, ma anche altre davvero faticose, soprattutto nelle descrizioni della natura circostante, così importante per Ray e per Unocchio, ma in cui io confesso di essermi un po’ persa. Sara Baume è una grande osservatrice, che presta attenzione anche al più piccolo dettaglio, e anche una grande conoscitrice della natura: qui si trovano riferimenti a uccelli, piante, fiori sconosciuti ai più, che lei invece riesce a descrivere in modo magistrale, oltre che dettagliato. Forse fin troppo, almeno per quanto mi riguarda (forse perché, pur essendo io cresciuta in campagna, in mezzo a campi, prati, colline, alberi e fiori, non ho mai prestato attenzione ai nomi delle cose, mi sono limitata a osservarle).

In ogni caso, se si ha un cane o lo si ha avuto in passato, ma anche solo se si amano senza mai averne avuto uno,  fiore frutto foglia fango farà commuovere fin dalla prima pagina, fin da quella corsa disperata di Unocchio per salvarsi la vita e dal momento in cui Ray se lo carica in auto. 
Ed è sicuramente un libro molto poetico, che, tra il nome di una pianta e l'altro e una descrizione e l'altra, riesce a raccontare al meglio quale straordinario rapporto si possa creare tra un cane e chi decide di adottarlo, ma soprattutto tra due esseri solitari che decidono di unire le loro solitudine.


Titolo: fiore frutto foglia fango
Autore: Sara Baume
Traduttore: Ada Arduini
Pagine: 236
Anno di pubblicazione: 2018
Editore: NN editore
Prezzo di copertina: 18,00 €
Acquista su Amazon:
formato cartaceo: Fiore frutto foglia fango
formato ebook: fiore frutto foglia fango

giovedì 15 marzo 2018

UNA VITA DA LIBRAIO - Shaun Bythell

George Orwell non aveva nessuna voglia di fare il librario, e devo dire che lo capisco benissimo. Lo stereotipo del libraio insofferente, intollerante e misantropo [...] trova spesso conferma nella realtà. Ci sono le immancabili eccezioni, ovvio, e molti colleghi di mia conoscenza non sono affatto così: io sì, purtroppo. Ma un tempo ero diverso, e prima di comprare la libreria ero un tipo abbastanza disponibile e amichevole. Se oggi sono quel che sono, è colpa del quotidiano bombardamento di domande idiote, dell'incertezza finanziaria, delle eterne discussioni con il personale, dell'infinito, sfiancante mercanteggiare dei clienti. Eppure, se qualcuno mi chiedesse cosa vorrei cambiare, la risposta sarebbe: Niente.

Mi sono innamorata di Una vita da libraio di Shaun Bythell diversi mesi prima che uscisse, quando Einaudi ha mostrato per la prima volta la copertina, opera magnifica di Jon McNaught. Non sapevo di cosa parlasse il libro (anche se, in effetti, era facilmente immaginabile), né chi fosse Shaun Bythell all’epoca. E no, non conoscevo The Book Shop, la libreria di libri usati di cui Shaun è proprietario in un piccolo paesino della Scozia, Wigtown. Quando ho avuto finalmente il libro tra le mani, e in meno di mezz’ora mi sono ritrovata a pagina cinquanta, l’innamoramento è stato definitivo.

Una vita da libraio, tradotto in italiano da Carla Palmieri, è il diario di un libraio e della sua libreria. Qui, Shaun Bythell racconta l’attività della sua The Book Shop: i clienti che lo visitano, i libri che cercano di vendergli e quelli che va lui a esaminare a casa di personaggi più o meno eccentrici, il rapporto con il territorio (Wigtown è conosciuta come “La città del libro” perché, pur essendo un paesino di circa mille abitanti, conta moltissime librerie, e ogni anno nel mese di settembre si svolge un importante festival letterario) e quello con i suoi dipendenti, passando anche per quello con la rete, internet e sì, persino con amazon (in quanto proprietario di una libreria di libri usati, Shaun Bythell sa di non poter fare a meno di internet, sebbene sia amazon sia AbeBooks non rendano così facile la collaborazione).

Il risultato un racconto ironico e, a tratti, un po’ disarmante di due anni di vita di una libreria dell’usato, con tutti i suoi alti e i suoi bassi.  Shaun Bythell apre ogni capitolo con una citazione tratta da Racconti di libreria di George Orwell, un saggio in cui l’autore inglese racconta la sua breve esperienza di libraio: parole spesso ironiche e non sempre lusinghiere, che il proprietario di The Book Shoop fa sue e rielabora, riadattandole ai tempi e alla vita all’interno della sua libreria.

La bellezza di Una vita da libraio, oltre che nello stile che mi ha fatto spesso sorridere per la sua autoironia anche nei momenti in cui più che da ridere ci sarebbe stato da piangere, sta nella capacità di non edulcorare le difficoltà di un lavoro tanto idealizzato quanto, spesso, bistrattato, e di essere onesto fino in fondo. Shaun Bhytell ama il suo lavoro, ama i libri e stare in mezzo a loro, così come ama trovare perle rare in scatoloni di cose vecchie e inutili (e magari fermasi a pescare mentre ritorna a casa); ma al tempo stesso ha i conti da pagare, il tetto e altre parti della libreria spesso da aggiustare, e deve affrontare e sopravvivere quotidianamente alla sua singolare dipendente Nicky e, soprattutto, ai suoi clienti, esseri a volte gentilissimi, altre davvero odiosi e sempre pronti a questionare su prezzi e sconti (quando non telefonano per richiedere un titolo e poi comprarlo su amazon).
Le persone davvero interessate ai libri sono rare, ma coloro che pensano di esserlo sono molto più numerosi. Riconoscerli è facilissimo: entrano in libreria e la prima cosa che fanno è presentarsi come «appassionati di libri», poi non fanno che ripeterti che «amano i libri». Sulle magliette che indossano o sulle loro borse ci sono slogan che spiegano con precisione fino a che punto pensano di adorare i libri, ma il modo più sicuro per identificarli è che mai, nemmeno una volta, ne comprano uno.
Alla fine di Una vita da libraio avrete voglia di partire e di andare in Wigtown al The Book Shop. Per vedere dal vivo questa enorme libreria, a cui si accede attraversando due colonne di libri di pietra, per poi ritrovarsi all’interno di cunicoli e stanzette stracolme di volumi di qualsiasi genere, per poi fermarsi di fronte a un kindle impallinato. Se partire non vi è possibile, potete sempre iniziare a seguire The Book Shop e Shaun Bythell sui social (e magari iscriversi al suo Random Book Club, se spedisce anche in Italia), per non perdere quell’ironia e quella magia che è riuscito a creare nelle pagine di questo libro, semplicemente raccontando la sua vita.

© Oliver Dixon  (source: http://bit.ly/2pfkJm0)

Titolo: Una vita da libraio
Autore: Shaun Bythell
Traduttore: Carla Palmieri
Pagine: 378
Anno di pubblicazione: 2018
Editore: Einaudi
Prezzo di copertina: 19,00 €
Acquista su Amazon:
formato cartaceo: Una vita da libraio
formato ebook: Una vita da libraio (Einaudi. Stile libero extra)

lunedì 12 marzo 2018

La mia giornata a Tempo di Libri 2018

Come avevo annunciato, sabato 10 marzo sono stata a Tempo di libri, la fiera internazionale del libro di Milano, che quest’anno, per la sua seconda edizione, si è tenuta a Fieramilanocity.
E questo è già stato un punto a suo favore, perché questo spazio espositivo è dentro Milano, facilmente raggiungibile con ben due linee della metropolitana (viva la Lilla, ché è tutta lilla!) al prezzo del biglietto urbano (mentre l’anno scorso, per andare a Rho, si pagavano cinque euro solo di trasporti).
Sono arrivata addirittura prima dell’apertura. Il mio pass blogger mi ha consentito di non fare la coda fuori alla pioggia e poi di valicare i tornelli proprio alle 10 in punto, così da vedere la fiera vuota e nella sua interezza. 



La primissima nota dolente, almeno dal mio punto di vista, è il fatto che i due padiglioni che ospitavano gli stand e le sale degli incontri fossero su due piani diversi, separati da una specie di balconata intermedia da dove si entrava in fiera e poi si sceglieva se scendere al padiglione 3 o salire al 4. Per buona parte della mattinata, dovendo passare rapidamente da un incontro all’altro (ovviamente su livelli diversi), ho avuto l’impressione di vivere sulla scala mobile (sentendomi a tratti anche un po’ scema, devo dir la verità). Questa divisione, inoltre, faceva forse sembrare la fiera molto più ridotta di quanto non fosse realmente. Mi rendo conto che se gli spazi espositivi sono quelli non ci si può fare molto, ma l’ho trovato in qualche modo un po’ penalizzate.

Di positivo, positivissimo, invece, c’era l’atmosfera. Chiunque abbia partecipato anche all’edizione dell’anno scorso non può non aver notato l’enorme differenza: non c’era più un’aria di catastrofe imminente, quell’ansia da prestazione che, almeno in parte, ha un po’ penalizzato la prima edizione. Forse si è finalmente capito, da una parte e dall’altra, che la contrapposizione con Torino è insensata e inutile, oltre che penalizzante per entrambe. Insomma, quest’anno Tempo di libri era una normalissima fiera del libro, con stand, tante sale per gli incontri e un programma tutto sommato abbastanza ricco, anche se forse puntava più su personaggi acchiappafolle che non su scrittori veri e propri.

Foto scattata dalla scala mobile in discesa, un minuto dopo le 10 (è per questo che non c'è ancora nessuno)
Tutti gli eventi a cui ho partecipato io erano comunque strapieni. Si è riempita la sala Bianca, alle 10.30, per parlare di traduzione in un appuntamento organizzato da Amazon publishing (sì, a Tempo di libri c’è anche lo stand di amazon, due in realtà: uno dell’editore e uno dedicato ad audible); si è riempito a mezzogiorno l’incontro con Marco Missiroli che raccontava il suo rapporto con Dino Buzzati, così come era tutto esaurito anche un altro incontro dedicato alla traduzione, nel pomeriggio, organizzato dal Master in editoria della Cattolica (tra gli ospiti, qui c’era Roberta Scarabelli, che ha raccontato come è stato tradurre Origin di Dan Brown, chiusa per due mesi in un Bunker a Barcellona insieme agli altri traduttori). L’ultimo mio incontro della giornata è stato quello con Rosella Postorino e Massimo Recalcati, ancora più pieno di tutti i precedenti, con anche una lunga coda per entrare decisamente mal gestita. (Peccato che l’incontro in sé non sia riuscito così bene e più che invogliare alla lettura di un libro decisamente molto bello l’abbia un po’ scoraggiata).

Per quanto riguarda gli stand, come è risaputo, la maggior parte erano di grandi editori. Non ho mai capito onestamente quanto senso abbia comprare un libro di un grande editore in una fiera, pagando sia il biglietto d’ingresso sia il volume a prezzo pieno. Forse l’offerta, molto più ampia rispetto a quella che si trova solitamente in libreria; forse la bellezza (sicuramente d’impatto) di vedere tutti quei libri messi insieme in contesti e luci particolari (non ho ancora deciso se lo stand Rizzoli, per esempio, mi piaccia da matti o mi sembri una sala operatoria)… insomma, gente comunque ce n’era. Così come ce n’era tanta, tantissima negli stand di alcuni editori indipendenti. A parte NN, lo stand che per doveri coniugali ho monitorato con più costanza, mi ha fatto davvero piacere vedere alcuni espositori sommersi di lettori: è il caso per esempio di Triskell edizioni che, al mattino, quando sono passata io a salutare, era letteralmente invaso. In generale, comunque, il sabato di gente in giro ce n’era eccome.
È un peccato che l’angolo dedicato ai libri antichi non sia stato invece valorizzato a dovere. Pur essendo segnalato, in modo in realtà non molto chiaro, sulla mappa quasi non si sapeva che ci fosse (ecco, la segnaletica di TdL è davvero qualcosa su cui bisogna lavorare). Noi ci siamo capitati quasi per caso… ed è un vero peccato perché negli stand dei Librai antiquari si ha la possibilità di vedere delle vere e proprie meraviglie.

Come in tutte le fiere, però, la cosa più bella in assoluto sono le persone. I “ci vediamo per un caffè?”, i “passo a salutarti, dove sei?”, i "come ti riconosco?" e “oddio, che bello, finalmente ci conosciamo!”, insomma… il poter scambiare saluti, sorrisi, chiacchiere con persone che magari conosci solo in rete a cui puoi finalmente dare un volto. Da questo punto di vista, per me, è stata davvero una bella giornata. Ho scambiato due chiacchiere con alcuni uffici stampa con cui ho sempre interagito solo via mail; ho salutato altre blogger, che conoscevo solo su facebook; ho parlato con altri traduttori e con amici virtuali che in quel momento diventano reali; e sono stata persino intervistata da due carinissime ragazze del master di Editoria dell'Università Cattolica, con le quali il reciproco imbarazzo è stato cancellato da una marea di risate (e spero vivamente di aver detto anche cose intelligenti).
Non faccio l’elenco delle persone che ho visto perché ho paura di dimenticarmene qualcuna e mi dispiacerebbe molto. Però è stato bello, davvero, e mi ha fatto un piacere immenso, oltre a farmi capire ancora una volta quanto forte sia il potere dei libri.

Insomma, a me questo Tempo di libri è piaciuto molto. Certo, alla sera, dopo dieci ore lì dentro non ne potevo più (nonostante i caffè e i dolcini buonissimi della Sala Stampa), e non oso immaginare cosa sia per un editore, magari uno piccolino, dover fare quegli orari (è davvero necessario tenere una fiera aperta fino alle 22?). Però, secondo me quest’anno, alla seconda edizione, si è dimostrato che anche Tempo di libri ha un suo perché, una sua identità (ancora migliorabile, sicuramente) e che può coesistere tranquillamente con tutte le altre fiere. Ora bisogna vedere cosa succederà al BookPride il fine settimana del 23, 24 e 25 marzo… ma essendoci là solo editori indipendenti, con un programma dedicato, un nuovo direttore, ed essendo a ingresso gratuito, non credo che abbia niente da temere, perché il pubblico è in buona parte diverso.

L’unica grande, grandissima pecca è che non ho comprato niente. 

venerdì 9 marzo 2018

TEMPO DI LIBRI 2018 - chi, cosa, quando, dove e perché

È iniziata ieri, 8 marzo, la seconda edizione di Tempo di libri, la fiera del libro milanese che da Rho quest’anno si è spostata nei padiglioni di Fieramilanocity e che durerà fino a lunedì 12 marzo.


L’edizione dell’anno scorso stata quella delle polemiche e dei forti contrasti con Torino e il Salone del libro. Grandi editori che a una fiera c’erano e all’altra no, piccoli editori che a una non c’erano e all’altra sì. A me l’edizione dell’anno scorso, pur con un numero di presenze molto limitato rispetto al previsto, non era dispiaciuta. Era una prima edizione, con tutto ciò che questo comporta logisticamente, e il clima di tensione era molto più forte di quello di festa che in queste occasioni ci dovrebbe essere (e che invece si è percepito nettamente nei padiglioni torinesi).
Nell’edizione di quest’anno, oltre alla location, sono cambiate diverse cose (tra cui gli organizzatori, con Andrea Kerbaker che ha preso il posto della bravissima e instancabile Chiara Valerio, che l’hanno scorso ha dato il massimo) e sono davvero curiosa di andarci.

Io quest'anno sarò presente solo un giorno, domani, sabato 10 marzo, perché impegni di lavoro mi impediscono di fare di più. Vi segnalo qui gli eventi a cui ho intenzione di partecipare. È solo una piccola selezione di tutto il vasto programma, ma si tratta degli incontri che più mi interessano. Alcuni si sovrappongono e nemmeno quest’anno sono riuscita a ottenere il dono dell’ubiquità, ma li segnalo comunque.

H 10.30 - Voglio fare il traduttore! Preparazione, opportunità, soddisfazioni e rischi dell’altro autore - SALA BIANCA
H 11.30 - Iginio Massari: the sweetman. Presentazione e showcooking -  TDL A TAVOLA – LA CUCINA
H 12 - Dino Buzzati attraverso gli occhi di Marco Missiroli - SALA AMBER 4
H 15.30 - La parola verità - con Gianrico Carofiglio -  SALA BROWN 2
H 15.30 - Il traduttore, viaggiatore tra mondi - SPAZIO AIE
H 16 - Le sere che va via la luce – con Fabio Genovesi - SALA VOLTA
H 16.30 - A tavola con Hitler: storia di un’assaggiatrice – con Rosella Postorino - SALA BROWN 2
H 17.30 - La città della vita, le città della letteratura – con Francesco Piccolo e Silvia Avallone - SALA BROWN 2
H 18 - La versione di Cracco – con Carlo Cracco - SALA AMBER 3
H 19.30 - L’Incompiuter - Un viaggio nel mondo di Enzo Jannacci e Beppe Viola -  SALA AMBER 2
H 21 -  Un’identità tra musica e letteratura – con Roberto Vecchioni - SALA BROWN 3

Sì, come vedete ho segnato anche due incontri legati alla cucina e al mondo del cibo. Lo so, ai più farà storcere il naso, perché i libri sono libri e la cucina non c’entra niente, ma io sono da sempre convinta che i lettori non vivano in compartimenti stagni, e se io sono a una fiera del libro e, tra uno stand e l’altro e un incontro e l’altro, ho la possibilità di vedere anche qualcosa che mi interessa ma che con i libri forse c'entra poco, perché non dovrei farlo?

Sicuramente mancherà qualcosa e sicuramente non potrò assistere a tutto, anche perché la cosa più mi piace delle fiere è girare tra gli stand, fermarmi a chiacchierare con persone che magari vedo solo in queste occasioni e lasciare che il tempo passi a modo suo. Ma è giusto per avere un'idea.

Voi ci sarete? Avete segnato qualche altro evento per la giornata di sabato che a me è sfuggito? E gli altri giorni?

venerdì 2 marzo 2018

THÉODORE E DOROTHÉE - Alexandre Postel

Quando l'agente immobiliare aveva precisato che gli inquilini precedenti erano una giovane coppia, Théodore aveva subito dedotto che si erano lasciati. Perché, tra le tante spiegazioni possibili, privilegiava proprio quella all'ipotesi di un trasferimento di lavoro, di un'eredità o di una gravidanza? Perché, se non per il suo timore della convivenza?
Gli tremavano le gambe, dovette appoggiarsi allo stipite della porta. Allora sentì i passi di Dorothée per le scale; portava uno scatolone di libri; la vide arrivare trafelata, sorridente, gli occhi scintillanti, una ciocca di capelli sulla fronte: non gli era mai sembrata così bella né così felice. Théodore tornava a respirare.

I romanzi che parlano di vita di coppia mi inquietano sempre un po’. Ho sempre paura di non riconoscermi, e pensare magari che nella mia, di vita di coppia, stia forse sbagliando qualcosa, o di riconoscermici troppo, e pensare che quindi la mia storia per me così speciale sia in realtà un susseguirsi di luoghi comuni ed esperienze simili a quelle di tutte. La paura di riconoscermici troppo aumenta nel caso in cui la coppia raccontata nel romanzo sia magari in crisi senza rendersene conto, o sia un po’ antipatica, o abbia atteggiamenti che, alla lunga, un amore, almeno dal mio punto di vista, potrebbero distruggerlo.

È un po’ il caso di Théodore e Dorothée, romanzo di Alexandre Postel appena uscito per minimum fax con la traduzione di Stefania Ricciardi. O almeno così l’ho percepito, che ho iniziato fin dalla prima pagina a trovare irritanti i due protagonisti, i cui nomi sono anagrammi l’uno dell’altro e quindi, almeno all’apparenza, fatti per amarsi.

I due stanno insieme da qualche tempo e sentono che sia giunto il momento di fare un passo avanti nella loro relazione e andare a vivere insieme. I soldi sono un po’ un problema, perché i prezzi degli appartamenti di Parigi sono più alti che quello che le tasche di una professoressa e di un freelance dell’informatica possono permettersi. Ma, insomma, volere è potere, soprattutto se si ha qualcuno alle spalle disponibile ad aiutare. Théodore e Dorothée vanno quindi a vivere insieme, vivendo con un po’ (troppa) ansia il momento della scelta dei mobili e dell’arredamento, poi quello dell’inaugurazione della casa con i loro amici e poi, piano piano, della loro vita di coppia in generale. Gli anni passano e loro decidono che no, non vogliono sposarsi; che no, figli non ne voglio, però dai, magari potrebbero prendere un gatto; che sì, dai, perché non mettersi lì e fare qualcosa insieme: la palestra, scrivere un libro, fare lunghe passeggiate… però poi forse no, non è un’idea così buona; che no, il sostegno che i due dicono di darsi a vicenda si scontra presto con la vita pratica (lei sta scrivendo da anni una tesi di dottorato che sembra infinita, e in cui nessuno crede; lui cerca lavoro, ma forse non abbastanza). Eppure si amano. Forse un po’ per abitudine, forse perché l’amore di una coppia si dimostra anche sopportandosi e trattenendosi dal dire o fare certe cose, pur pensandole e pur mettendosi in dubbio ogni giorno.
Interrogarsi sul senso della vita in comune era correre il rischio della tristezza. Non farlo, era correre il rischio di fallire la propria vita, di deviare se stessi, di scoprire, in fondo al cammino, che la vita a due non era in realtà che una mezza vita.
Théodore e Dorothée mi hanno irritata e, per fortuna devo dire, non mi ci sono nemmeno così tanto identificata. In alcune cose sì, ovviamente, perché è inevitabile che la vita di coppia si trasformi in piccole e grandi routine che sono, o si pensa che siano, uniche di chi le sta vivendo. Però in questi due personaggi ho colto una nota di insoddisfazione generale che mi ha un po’ intristita e un po’ infastidita. Una sorta di rassegnazione, che si manifesta in piccoli dispetti che i due quasi inconsapevolmente si scambiano. 

Sicuramente Alexandre Postel è stato bravo a rappresentare la vita di questa coppia, a caratterizzare bene entrambi i protagonisti (ma anche le persone che ruotano attorno a loro), a volte enfatizzandone ed esasperandone tratti e atteggiamenti. Però sarà che io sto vivendo ancora l’entusiasmo dei primi tempi (sono sposata da meno di sei mesi e vivo con mio marito da un anno e mezzo), che scegliere la camera da letto è stato traumatico all’inizio ma anche divertente, che ci facciamo le nostre cose senza cercare sempre per forza l’approvazione l’uno dell’altro, pur condividendo ogni cosa… insomma che non siamo ancora caduti in quelle routine, in quei dubbi e in quelle domande che, credo inevitabilmente, sorgono a un certo punto di una relazione, e quindi la visione di coppia di Théodore e Dorothée mi ha davvero irritata, al punto da non saper dire se il romanzo mi sia piaciuto o meno.

È sicuramente un libro che dà molto da riflettere (e questo per un libro è comunque già una gran cosa) e in cui ogni persona ci troverà qualcosa di diverso, in base a quel che sta vivendo in quel momento. 
Io più volte sarei voluta entrare nelle pagine e dire a Théodore e Dorothée che magari potevano anche provare a separarsi per un po’ e vedere cosa sarebbe successo. Però poi mi sono resa conto  che probabilmente separati non sarebbero riusciti a sopravvivere.


Titolo: Théodore e Dorothée
Autore: Alexandre Postel
Traduttore: Stefania Ricciardi
Pagine: 207
Anno di pubblicazione: 2018
Editore: minimum fax
Prezzo di copertina: 17,00 €
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formato cartaceo: Théodore e Dorothée
formato ebookThéodore e Dorothée